Il futuro non è scritto

Il futuro non è scritto

Dicembre 2025
Una prospettiva critica sui teatri documentari
Lorenzo Donati

Una prospettiva critica sui teatri documentari

Forse non siamo pronti per il teatro documentario, è troppo forte il contraccolpo che genera nelle nostre consuetudini di visione e percezione. Quello documentario è un teatro diffuso in ambito europeo anche nelle grandi sale, mentre in Italia siamo più abituati a spettacoli che orchestrano registicamente e scenicamente racconti di finzione. Quando è documentario, il teatro usa il reale come fonte e come lingua in tutte le sue manifestazioni: nel processo di ricerca, che avviene all’esterno e non solo nella sala prove; nelle vicende raccontate, tipicamente prossime all’attualità o provenienti dalle biografie di chi è in scena; grazie alle presenza di attori e attrici spesso non professionisti. Ma attenzione: questo “usare il reale” non significa fare a meno della finzione e qui probabilmente la nostra percezione difetta, drogata da sovrastimolazioni rappresentative. Per misurare il livello di credibilità eravamo abituati a usare un parametro di mimesi dicendo “sembra un film” (tenendo ferma la distinzione fra finzione e “originale”), mentre ora le immagini delle intelligenze artificiali imitano “solo” la finzione, dunque una realtà iper-trasformata, ritmata e suddivisa in frames. Ma cosa accade quando di fronte a noi ri-vediamo pezzi che ci riportano al punto di partenza, a quella realtà che sembra scomparsa dal nostro percepire? Ci sembra una domanda da porsi subito, è qui infatti che il teatro documentario s’incunea.

Facendo un passo non eccessivamente specialistico, diremmo che il teatro documentario sgretola quote di “rappresentazione”, recuperando stati di presenza che tendono alla “presentazione” senza mai risolversi in essa. È forse la forma artistica che scrive «il più vicino possibile alla realtà» come sostengono Erica Magris e Beatrice Picon-Vallin, un approssimarsi da intendersi come invito a una corrispondenza fra realtà e finzione, come due amiche d’infanzia che si mandano delle lettere. Per questo non possiamo dimenticare quanto il teatro documentario sia tangente alle ricerche sulla “presenza” tipiche della performance e della danza contemporanea, quanto conosca bene anche le tecniche di immedesimazione e rappresentazione del lavoro autoriale di attori e attrici, si serva dell’invenzione scenica registica e a tutti questi elementi aggiunga anche la narrazione spesso autobiografica.
La componente documentaria del teatro sta dunque in quel lavorio che trasforma le persone e le loro storie in “racconti”, di fatto “scrivendo la realtà” attraverso il montaggio drammaturgico, la messa in forma quasi coreografica di corpi e gesti, l’intervento sull’ambiente scenico con luci e musiche, e così via.  Di fronte a noi ci sono pezzi di realtà che in prima istanza appaiono “non trasformati” ma, a ben vedere, le stesse presenze che calpestano le assi del palco occupano l’intercapedine fra la finzione del personaggio e la quotidianità della persona. C’è dunque uno sprone a “reimparare a percepire”, a guardare fra le righe, perché una storia esiste se si decide di tramutarla in racconto.

Come accade nel cinema del reale, anche il teatro documentario integra nell’esito finale la narrazione del processo, proiettando la sua portata oltre le singole repliche. Mentre stiamo scrivendo  A Place of Safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale è in scena a Roma al Teatro Vascello e due attori del cast, Miguel Duarte e Flavio Catalano, sono assenti dalla scena perché imbarcati sulla Global Sumud Flotilla, iniziativa umanitaria per rompere l’assedio e il massacro a Gaza. Al loro posto sono stati ingaggiati alcuni attori professionisti ai quali è stato chiesto di leggere le battute degli assenti. Uno spettacolo, dunque, così vicino al reale da poter mutare sensibilmente di replica in replica.

Anche il presente volume ambisce a porsi come itinerario di scoperte e approfondimenti attorno al corpo vivo dell’opera. Nella prima parte, si trovano alcune coordinate per orientarsi nella vicenda della Search and Rescue (ricerca e soccorso) a cui si aggiunge un profilo biografico di Kepler-452. Si tenta in seguito di dare rilevanza al processo attraverso le interviste ai due fondatori della compagnia, alle attrici e agli attori e con gli scritti di alcuni collaboratori alla creazione: la coreografa e attrice Marta Ciappina, il delegato sindacale, operaio e autore Dario Salvetti, il ricercatore Giovanni Zanotti. La terza sezione amplia il ragionamento in una dimensione europea, convocando due fra i massimi esperti di teatro documentario: Erica Magris (Università Paris 8) colloca il lavoro di Kepler-452 in un orizzonte di risonanze poetiche e stilistiche, portando i nostri spunti introduttivi in una dimensione compiutamente storica; infine Olivier Neveux, docente all’Università di Lyon, invita a pensare al teatro politicamente nel rapporto tra individuo e collettività, fra processi decoloniali e ansie del realismo.
Proseguiamo, dunque, seguendo la pista del racconto delle migrazioni a teatro.
[dalla prefazione al testo A Place of Safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale, collana Linea in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione]


Nota sul Search and Rescue e sul concetto di “porto sicuro”

Il termine Search and Rescue (SAR) indica le operazioni di ricerca e salvataggio di persone in pericolo in mare, una pratica regolata da convenzioni internazionali e oggi al centro di accesi dibattiti. Il concetto di “porto sicuro”, a sua volta, definisce il luogo in cui terminano le operazioni di soccorso e in cui la vita dei naufraghi non è più minacciata.

Supponiamo di essere nati in un paese al di fuori della cosiddetta area Schengen, confini europei entro i quali, dal 1985 in avanti, è iniziato un processo per l’abbattimento delle frontiere interne. Supponiamo, per un nostro desiderio di cambio vita, di volere raggiungere l’Europa. Per arrivarci anche per pochi giorni serve un visto, mentre per risiedervi stabilmente un permesso di soggiorno. Se fossimo nati in aree ricche del pianeta, e se ci si può permettere un viaggio di andata e ritorno, il visto è più o meno garantito. I problemi cominciano se il nostro paese di provenienza è afflitto da guerre, dittature o regimi che limitano le libertà personali: gli uffici di ambasciate e consolati che concedono i visti non ci permetterebbero di viaggiare. A pensarci sembra strano, ma a tantissime persone viene proibito di uscire dai confini dei propri stati, a meno di presentare cospicue garanzie economiche e lavorative. Ci sono alcune eccezioni: i ricongiungimenti famigliari (se si ha parenti già stabilmente regolarizzati in Europa) e, in Italia, i cosiddetti “decreti flussi”, che dovrebbero permettere di ottenere permessi di soggiorno di lavoro, ma il cui iter risulta molto farraginoso sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per tutti gli altri casi non resta che la clandestinità integrale (arrivando illegalmente) o quella parziale, restando dopo la scadenza dei visti turistici (ammesso di averlo ottenuto), sperando di trovare lavoro in seguito o di regolarizzarsi attraverso le sanatorie. 

Va detto che tra 2000 e 2010 solo il 9% dei flussi migratori fra le ex-colonie e l’Europa è avvenuto tramite viaggi nel Mediterraneo. Tutta la restante parte è stata originata da visti turistici ottenuti e usati per restare, da ricongiungimenti famigliari o dall’ottenimento di asilo politico. La criminalizzazione dell’immigrazione, in Italia, si è dunque orientata esclusivamente sul Mediterraneo nonostante il 90% delle persone in transito non provenga dal confine marittimo. 

Supponiamo dunque di far parte di quel 9% di persone che è deciso a raggiungere l’Europa via mare. Ci è stato negato un visto turistico, o non siamo nelle condizioni di chiederlo perché non abbiamo ingenti coperture economiche. Ci mettiamo in viaggio pagando dei passaggi salatissimi ai trafficanti delle coste, che spesso ci lasceranno in balìa delle onde su imbarcazioni di fortuna. Se dovessimo trovarci in difficoltà, questo è lo scenario che ci si presenta. Fino all’inizio degli anni Dieci in Italia la Marina Militare e la Guardia Costiera conducevano operazioni di pattugliamento e salvataggio, con il preciso obiettivo di salvare vite umane (es. l’operazione Mare Nostrum, del 2013). In questo quadro si è sviluppata l’azione di Search and Rescue (SAR) svolta da diverse Organizzazioni Non Governative internazionali, organizzazioni che inizialmente cooperavano con le autorità locali per un comune obiettivo. Nel tempo, il ritirarsi delle autorità nazionali ha lasciato il campo alle ONG: secondo l’European Union Agency for Fundamental Rights le ONG avevano effettuato circa il 40% dei soccorsi nella prima metà del 2018. Da metà degli anni Dieci si è aggiunta una campagna di criminalizzazione sul triplice piano politico, mediatico e giudiziario cui è corrisposta un’effettiva smobilitazione: diversi processi sono stati intentati verso ONG accusate di favorire l’immigrazione clandestina, in un diabolico ribaltamento di prospettiva (si accusa chi si preoccupa di salvare vite, mentre gli stati Europei stanno a guardare) e con l’utilizzo del paradigma d’indagine mafioso che è arrivato, in alcuni casi, a ricorrere persino all’associazione a delinquere contro chi salva vite in mare; intanto in Italia i ministri di Centrodestra hanno completato quanto era stato iniziato prima dai ministri di Centrosinistra, perché fra chiudere i porti di Salvini e stringere accordi per i respingimenti di Minniti la differenza è poca. Nel Mediterraneo centrale gli stati hanno dunque deciso di impiegare sempre meno risorse, spostandole sulla difesa dei confini: in questo consiste l’Agenzia europea Frontex, mentre l’Italia ha stretto accordi con la Libia fornendo risorse, armi e mezzi di trasporto marittimo con il preciso scopo di respingere le imbarcazioni, spesso aprendo il fuoco e detenendo le persone in condizioni disumane. Un accordo simile è stato stretto con la Tunisia nel luglio 2023. Dal primo Memorandum Italia-Libia del 2017 (rinnovato tacitamente il 2 novembre 2025), il nostro Paese è di fatto complice di uno Stato che diverse organizzazioni internazionali tra cui l’ONU, Amnesty International, Medici Senza Frontiere e Save the Children hanno denunciato per torture, detenzioni arbitrarie, violenze sessuali e trattamenti disumani.

Quello che invece fanno le ONG, in tale clima di criminalizzazione, è salvare vite attenendosi all’allegato alla convenzione SAR del 1979, paragrafo 1.3.2. In questo testo si definisce “porto sicuro” un luogo in cui le operazioni di salvataggio sono terminate e dove la sicurezza della vita dei sopravvissuti non è più minacciata, dal momento che i bisogni umani fondamentali (come cibo, riparo e cure mediche) possono essere soddisfatti. “A Place of Safety” è un luogo da cui si possono prendere accordi per il trasporto dei sopravvissuti verso la loro destinazione successiva. Nonostante non vi sia una definizione univoca, le convenzioni e alcuni strumenti di “soft law” (come le linee guida della IMO – Organizzazione Marittima Internazionale e le ExCom decisions dell’UNHCR, Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) forniscono elementi utili per stabilire che la nave che ha effettuato il soccorso può essere solo temporaneamente un Place of Safety. I governi dovrebbero cooperare tra di loro per fornire un porto sicuro adeguato ai sopravvissuti dopo aver considerato rischi pertinenti. Va chiarito che, nel caso di richiedenti asilo e dei rifugiati recuperati in mare, è da evitare lo sbarco in territori dove le vite e le libertà sarebbero minacciate da fondati timori di persecuzione.

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Dicembre 2025
Fabio Lisca

William Edwards Deming affermava che “solo nel 6% dei casi in cui qualcosa va storto, può essere attribuito direttamente a una persona. Nell’altro 94% è dovuto al sistema in cui questa persona stava agendo”. 
In altre parole: il 94% delle buone o cattive performance di un’organizzazione dipendono dal sistema e solo il 6% al fattore umano. 

Abbiamo già visto questa regola nei fattori critici di successo citati nella Lesson Learned #2 ora vediamone le implicazioni durante una trasformazione Agile, ma prima lasciatemi spendere due parole su Deming. 

Deming, la qualità e il sistema

Si può attribuire la paternità del TQM (Total Quality Management) proprio a Deming. Deve la sua fama soprattutto al lavoro svolto in Giappone dove fu chiamato dal generale Douglas MacArthur per formare l’industria giapponese che nel dopoguerra si trovava in uno stato di elevata arretratezza. Formò centinaia di ingegneri, manager e studiosi in SPC (Statistic Process Control) e sulla qualità. Deming era un professore universitario di statistica, influenzato dal lavoro di Walter A. Shewhart che applicò la statistica al controllo della qualità e definì l’applicazione del metodo scientifico attraverso un ciclo di sperimentazione e apprendimento definito PDSA (Plan, Do, Study, Act) poi divenuto PDCA (Plan, Do, Check, Act).

Deming applicò metodi statistici alla produzione e alla gestione industriale e l’idea di Shewhart di cause comuni e speciali di variazione. Deming comprese che questi metodi potevano essere applicati ai processi produttivi ma soprattutto potevano essere applicati ai sistemi di gestione, al management. Deming dimostrò che per comprendere come funziona un sistema occorre comprendere come funzionano le interazioni tra gli elementi di un sistema e che queste interazioni costringono il sistema a comportarsi come un singolo organismo.

Ogni sistema è in grado di produrre l’output che i vincoli del sistema permettono di realizzare, indipendentemente dai singoli individui che ci lavorano, i quali non possono cambiare la qualità dell’output se non si può cambiare il sistema, poiché è il sistema che condiziona gli output. “Un manager deve capire che tutte le persone sono diverse. Non si tratta di classificare le persone. Deve capire che le prestazioni di chiunque sono in gran parte determinate dal sistema in cui opera.”

Per questo occorre sviluppare quella che Deming chiamava un Sistema di Conoscenza Profonda ovvero la comprensione dei processi complessivi che coinvolgono fornitori, produttori e clienti. Si tratta quindi di cambiare il sistema non le persone. 

Tra i 14 principi chiave per trasformare l’efficacia organizzativa, suggeriti da Deming al management, ne spiccano alcuni indicativi: 

  • “Cessare di dipendere dalle ispezioni per ottenere la qualità. Eliminare la necessità di ispezioni massicce integrando la qualità nel prodotto fin dall’inizio.”
  • “Passare a un unico fornitore per ogni singolo articolo, instaurando un rapporto di lealtà e fiducia a lungo termine. Migliorare costantemente e in modo permanente il sistema di produzione e servizio, per migliorare la qualità e la produttività e quindi ridurre costantemente i costi.”
  • “L’obiettivo della supervisione dovrebbe essere quello di aiutare persone, macchine e dispositivi a svolgere un lavoro migliore.”
  • “Eliminare la paura, affinché tutti possano lavorare efficacemente per l’azienda“.
  • “Abbattere le barriere tra i reparti. Il personale di ricerca, progettazione, vendite e produzione deve lavorare in team, per prevedere i problemi di produzione e utilizzo che potrebbero presentarsi con il prodotto o il servizio.”
  • “Eliminare la gestione per obiettivi. Eliminare la gestione per numeri e obiettivi numerici.”
  • “Eliminare le barriere che privano il personale dirigente e ingegneristico del loro diritto all’orgoglio per il proprio lavoro. Ciò significa, tra l’altro, l’abolizione della valutazione annuale o di merito e della gestione per obiettivi.”
  • “Mettere tutti in azienda al lavoro per realizzare la trasformazione. La trasformazione è compito di tutti. È necessaria una formazione massiccia per infondere il coraggio di rompere con la tradizione. Ogni attività e ogni lavoro fa parte del processo.”

Chi li conosce vede ‘in nuce’ quei principi applicati nel Toyota Production System in modo sistematico ed estensivo.

Cosa ci suggerisce Deming con il concetto di Sistema di Conoscenza Profonda?

Ci dice che potete anche copiare i processi dei leader di mercato non ma non sarete mai in grado di riprodurre le interazioni tra le persone che fanno funzionare quei processi. Non potete fare altro che partire dai processi esistenti, conoscerli a fondo, misurarli e permette alle persone di sperimentare i cambiamenti che migliorano quei processi. Questo richiede disciplina e meccanismi chiari. Ve lo racconto in altro modo.

Pensate ad un albergo di lusso dove un ‘ArchiStar’ ha disegnato in ogni stanza una console a muro con un prezioso vaso e fiori freschi tutte le mattine. Arriva un addetto delle pulizie e con il braccio della aspirapolvere prende dentro una gamba della console causando la sua caduta con tanto di vaso, acqua e fiori sulla moquette. Un’azienda convenzionale redarguisce e sostituisce il colpevole senza cambiare il sistema, perché pensa veramente che le performance dipendono dalle persone. Questo significa però che l’incidente accadrà ancora indefinitamente. Cambiare le persone non serve, occorre agire sul sistema, ma come? Radunate tutti gli addetti delle pulizie e mostrate loro il problema, quindi chiedete a loro cosa si può sperimentare per eliminare alla radice il problema in modo che non accada più. La contromisura sperimentata più efficace viene standardizzata in tutta la catena di alberghi. Avete appena applicato il ciclo di Deming: PDCA.

Che cosa le organizzazioni non comprendono di questa regola?

Che per sistema si intende il flusso del valore end to end che parte dalla domanda del cliente e finisce con la soluzione al cliente. Che il team di lavoro è costruito attorno al value stream con le persone che con la loro attività contribuiscono a portare valore al cliente. Che il lavoro procede in flusso, per questo le persone lavorano in team indipendentemente dal dipartimento di appartenenza. Che il team dedica tempo alla riflessione su come migliorare il processo e lo fa identificando i problemi, definiti come scostamento dalla condizione desiderata. Che i problemi sono opportunità di miglioramento.

A questi concetti chiave si legano molte altre pratiche in uso nelle organizzazioni convenzionali che col tempo occorre cambiare, poiché nei percorsi di trasformazione diventano controproducenti e lesive della credibilità della trasformazione stessa. Mi riferisco ai comportamenti manageriali convenzionali. Si sa che le persone credono a ciò che vedono non a ciò che viene loro detto. Quindi se dite loro che i problemi sono opportunità di apprendimento e che è un valore farli emergere per poterli risolvere, e poi vedono un manager fare una sfuriata per un errore commesso da qualcuno, il messaggio che arriva è: gli errori vanno occultati mettendo qualche pezza momentanea e scaricando la colpa su qualcun altro che a sua volta la scaricherà su qualcun altro ancora. 

Vi sono poi le pratiche HR convenzionali come il MBO (Management by Objective), i sistemi di valutazione basati su persone e performance di output individuali, i sistemi premianti che ne conseguono e la lista continua. 

Che cosa si incontra nelle organizzazioni cosiddette strutturate? 

Quando lavori con dei team di organizzazioni convenzionali che si credono molto strutturate e in effetti lo sono, ma in modo estremamente inefficace. Vedi che hanno procedure dipartimentali per ogni attività, i processi sono strutturati ma in modalità micro per singole attività e non permettono di comprendere il flusso del valore, l’eccessiva frammentazione non permette azioni di cambiamento concrete se non in un perimetro eccessivamente ristretto, i dipartimenti si configurano come fortezze di potere inespugnabili dove al massimo sussiste qualche forma di cooperazione tra dipartimenti, la difesa territoriale è la priorità, l’applicazione delle procedure ipostatizzate centralmente dipende dalla discrezionalità dei singoli manager. Strutturate? Sì, sulla carta, non nella realtà.

Se quindi la regola del 94/6 è fondamentale nel mettere a terra il Mindset Lean Agile, risulta spesso incomprensibile per il mindset convenzionale che applica una scarsa visione sistemica abituato com’è ad assegnare compiti e controllarne l’esecuzione, a suddividere il lavoro all’interno di dipartimenti, ad attribuire ruoli e posizioni organizzative credendo che un organigramma sia la rappresentazione reale dell’organizzazione.

🎧 Ascolta il podcast Agile Confidential #LessonsLearned su Spotify.

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Novembre 2025
Nicolas Martino

Lessico per le arti del XXI secolo

Mettere al mondo il mondo è il titolo di un’opera degli anni settanta di Alighiero Boetti: tutte le lettere dell’alfabeto sullo sfondo di un foglio di carta colorato di blu con una penna biro. È anche pensando a quest’opera che ci è venuta in mente l’idea di questo lessico.
Un lessico per riscrivere il mondo, o meglio quella parte di mondo che riguarda le pratiche artistiche. Iniziare quantomeno a farlo, porre il problema di una necessità, vale a dire quella di ripensare il vocabolario dell’ambito specifico nel quale ci muoviamo, è l’urgenza dalla quale siamo partiti. Del resto con le parole si fanno cose, è con le parole che la realtà si fa e si disfa in continuazione, è con le lettere e i segni che appunto si mette al mondo il mondo. Allora è quando il mondo che abbiamo alle spalle non smette di tramontare e quello nuovo fatica a venire a galla che diventa indispensabile ricominciare a nominare il mondo con parole che ci aiutino a disegnarlo secondo un desiderio collettivo e condiviso.

Partendo dal presupposto che quello che stiamo attraversando sia un salto di paradigma che muta l’ordine del discorso e quindi trasforma radicalmente il significato e il senso delle parole, l’intenzione è stata quella di concentrarsi su alcuni lemmi. Dodici per l’esattezza. Le parole sono queste: autore, cura, disapprendimento, femminismo, intelligenza artificiale, movimento, museo, paesaggio, parola, pop, queer, trauma. Che qui trovate declinate da altrettanti studiosi che si muovono tutti all’incrocio tra la filosofia, la storia dell’arte, l’antropologia culturale, la teoria politica e le pratiche artistiche. Il sapere e le pratiche artistiche incrociano ambiti molteplici che vanno dalle scienze umane e sociali alle tecno-scienze e anche per questo quello dell’arte risulta oggi un campo strategico dentro in quale è importante imparare a muoversi.

Ma perché parliamo di un salto? È possibile pensare che quello che abbiamo chiamato postmoderno indichi in realtà l’inizio di una trasformazione molto più radicale di quanto non si sia compreso nel dibattito internazionale degli anni ottanta e novanta del XX secolo. Non si tratta solo della fine dei grandi racconti, della fiducia riposta in essi, né semplicemente di una nuova fase mondiale del capitalismo in cui la verità metafisica si dissolve in una molteplicità di interpretazioni diverse. Come è già accaduto in altre epoche storiche, probabilmente ci troviamo dentro una mutazione che segna il passaggio tra due civiltà diverse. Se la tarda antichità – quella dell’industria artistica studiata da Alois Riegl ‒, è il periodo che divide il mondo classico greco-romano dal cosiddetto Medioevo, l’epoca della manifattura è quella che, per dirla con Franz Borkenau, segna la transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo.
Ora la fuoriuscita dalla civiltà nata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese annuncia un mondo diverso in cui a trasformarsi sono i saperi, le strutture cognitive e percettive, e quindi i fondamenti antropologici stessi delle nostre culture. È in queste congiunture storiche che si reinventano gli alfabeti e si ricomincia a nominare il mondo con parole diverse.

Se è vero che le estetiche hanno sempre anticipato le politiche, oggi più che mai le arti sono strumento non solo per comprendere il mondo ma anche per (ri)farlo. Proprio quando iniziamo oltrepassare la semiosfera determinata dalla rivoluzione gutenberghiana che ha imposto per diversi secoli l’assoluta centralità della parola scritta come mezzo di manifestazione, conservazione e trasmissione di una cultura, l’espressione artistica si rivela uno straordinario mezzo attraverso il quale guarire da quelle crisi della presenza di cui parlava Ernesto De Martino. Non riuscire più a orientarsi nel mondo, non essere in grado di riconoscerlo e quindi rischiare di scomparire o sopravvivere in uno smarrimento perpetuo e invalidante. Siamo convinti che per evitare questo pericolo e riuscire a “stare” in questa transizione nella quale viviamo il sapere che viene dalle pratiche artistiche sia un patrimonio da mettere a frutto. Se nei primi decenni del XX secolo László Moholy-Nagy sosteneva che l’analfabeta del futuro sarebbe stato non colui che non avrebbe saputo leggere, ma quello che non sarebbe stato capace di capire la fotografia, noi sosteniamo che nel XXI secolo, in una società postalfabetica, la conoscenza non possa che passare attraverso saperi che scavalcano la contrapposizione binaria tra oralità e scrittura. Ecco perché non è un caso che questo libro sia nato dentro un’Accademia di Belle Arti, l’istituzione che in Italia si occupa della formazione artistica universitaria delle giovani generazioni.

Il Lessico per le Arti del XXI secolo nasce infatti da un convegno organizzato presso l’Accademia di Belle Arti di Sassari nei giorni 12 e 13 maggio del 2025. I 12 autori delle voci che potete leggere qui, ovvero oltre allo scrivente, Tommaso Ariemma, Elena Bellantoni, Sonia Borsato, Ilaria Bussoni, Ilenia Caleo, Francesco D’Isa, Giulia Grechi, Davide Mariani, Raffaella Perna, Viviana Vacca, Federico Zappino, si sono riuniti in due giornate durante le quali hanno lavorato alla costruzione di un lemmario che vuole essere un primo strumento di consultazione e ricerca rivolto certamente agli studenti, ma anche agli artisti, ai critici, ai filosofi e in generale a chiunque sia interessato a questa nostra mondanità. È un primo passo: l’ambizione è quella di dare inizio a un lessico tascabile per il XXI secolo che, in qualche modo, funzioni anche come uno strumento di terapia collettiva. Come forse sarebbe piaciuto a Mark Fisher.

Saper leggere coincide sempre con un’espansione dell’autonomia e della felicità di ogni singolarità, e per questo cominciare a (ri)dire il mondo coincide anche con un principio di guarigione.

Qui vi offriamo un’anteprima di quello che troverete nel Lessico.

Autore

Stando all’etimologia della parola l’autore sarebbe colui che accresce il sapere generale, ovvero aumenta la ricchezza collettiva. Ma le cose stanno davvero così? Guardare meglio dentro la funzione-autore ci serve a capire il ruolo strategico che questa ha occupato nella storia della nostra cultura, ma anche la relazione strutturale che intrattiene con i rapporti di produzione e quindi con le strutture sociali e politiche. La funzione autoriale è inestricabilmente legata al modo di produzione delle forme simboliche.
Nicolas Martino

Pop

Il pop è la fine dell’autonomia dell’arte. Il vero destino dell’arte contemporanea non è semplicemente la subordinazione al mercato, ma il suo poter circolare nella cultura pop. Non è solo il mercato che ingloba l’arte, ma ancor di più è il pop che la risucchia e la ricodifica. L’artista non è più un produttore di forme distinte e distanti dal mondo, ma diventa parte di un processo di co-branding, di estetizzazione diffusa, in cui l’opera non è più distinguibile dal prodotto. Ma esiste ancora una differenza tra opera d’arte e prodotto?
Tommaso Ariemma

Intelligenza artificiale

Da qualche anno, quando diciamo “intelligenza artificiale” non pensiamo più a un film di fantascienza, ma a uno strumento integrato nei nostri flussi quotidiani. In meno di tre stagioni, i modelli generativi hanno superato i 400 milioni di utenti settimanali e come l’elettricità alla fine dell’ottocento stanno diventando parte della nostra infrastruttura. Eppure, se un autore ammette di averli usati per un’opera, scatta l’ostracismo. Ma perché l’AI può ottimizzare bilanci, e non può o non deve toccare l’arte?
Francesco D’Isa

Parola

Parlare oggi della parola significa entrare in un territorio attraversato da tensioni: tra il dire e il fare, tra il corpo e il linguaggio, tra l’intimo e il politico. La parola è il primo oggetto che ho maneggiato come artista. Con il tempo ho capito che il mio lavoro in fondo è una riflessione sul linguaggio: su ciò che può, su ciò che non riesce a dire, su ciò che produce. Oggi parlo non solo come artista, ma come corpo che ha abitato e subito le parole. Le ha scritte, le ha taciute, le ha masticate e a volte vomitate. Cosa significa lavorare artisticamente con le parole?
Elena Bellantoni

Trauma

L’etimologia della parola suggerisce una prima collocazione nel contesto medico. La definizione dei dizionari sottolinea un’alterazione violenta dell’integrità fisica: fratture, ustioni, causticazioni o contusioni. Ininfluente la motivazione, accidentale o diretta, fondamentale invece l’intensità e l’istantaneità. La dimensione emotiva contestualizza il trauma in uno scenario psichico dove si alternano fasi e teorie non sempre concordi. Come e perché il trauma è parte del nostro presente?
Sonia Borsato

Femminismo

A partire dagli anni settanta il dibattito promosso dalle studiose di orientamento femminista ha affrontato questioni complesse, tra cui la possibilità di riscrivere la storia o, per meglio dire, “le storie dell’arte” secondo un’ottica di genere in grado di restituire visibilità alle artiste escluse dal canone storiografico. Al tempo stesso è in gioco la possibilità di riconoscere non soltanto un luogo di esclusione, ma anche uno spazio di resistenza, da cui mettere in discussione il centro. Ma come?
Raffaella Perna

Queer

In che modo un termine emerso per destabilizzare i codici della norma può trovare spazio all’interno di un dispositivo come un lessico per le arti nel XXI secolo? E che cosa accade quando il queer entra in relazione con le griglie concettuali delle pratiche artistiche? Questo lemma non si colloca semplicemente all’interno di un ordine discorsivo prestabilito, ma ne perturba i confini, aprendo una soglia in cui la dicibilità della norma estetica, come di quella politica, viene sospesa.
Federico Zappino

Movimento

Vi è una risonanza costitutiva tra lo spazio pubblico e lo spazio scenico, tra scena politica e scena artistica? L’organizzazione spaziale dei corpi evoca la “forma” del teatro. Piazza e platea, scena e agorà si parlano. Il radunarsi dei corpi in uno spazio pubblico, il loro assemblarsi disordinato può generare partiture che sovvertono i tempi, i ritmi, le posture e la disposizione dei corpi tra loro, come accade nel momento di una protesta di piazza, di un’occupazione, o di un’insurrezione.
Ilenia Caleo

Paesaggio

Che farcene in un lessico per le arti del XXI secolo di una parola polverosa come quella di paesaggio? Non appena pronunciata cominciano gli sbadigli. Nei musei saltiamo volentieri la successione di lande olandesi del Seicento e guardiamo ancor meno quei fondali del paesaggio toscano o veneto alle spalle delle Madonne del Cinquecento. È difficile pensare il paesaggio diversamente dal monumento. Invece proprio paesaggio ha una attualità strategica. Perché?
Ilaria Bussoni

Museo

Il museo nasce come luogo deputato alla collezione e conservazione di oggetti rari e preziosi. Soprattutto nell’Ottocento, queste collezioni private si trasformarono in istituzioni pubbliche nazionali: pensiamo al Louvre inaugurato dopo la Rivoluzione francese. Per gran parte del novecento il museo ha continuato a essere inteso come uno spazio pubblico nel quale una società metteva in mostra ciò che considerava significativo di sé stessa. Oggi qual è la sua funzione e soprattutto quale il suo futuro?
Davide Mariani

Disapprendimento

Le parole fanno e disfano mondi. E dunque, interrogarci sulle parole del presente e del futuro, vuol dire anche desiderare e generare un certo mondo a venire. Disapprendimento è una parola che chiede a chiunque la prenda in considerazione di metterla al lavoro, di prendere una posizione, di fare una scelta: cosa sento la necessità disimparare, perché e come posso farlo? È una parola che, come tutte le parole, è immediatamente azione: fa silenzio e rumore, scuce e ricuce, rompe e ripara, rifiuta e genera.
Giulia Grechi

Cura

Questo lemma va assunto nella sua multidimensionalità, ribadendo al contempo dei confini semantici porosi che possano restituire il dialogo con altri concetti che, al tema della cura, sono indissolubilmente legati. Se il lemma rimanda a termini quali terapia, clinica, salute, benessere, il concetto reca in sé le tracce di affetti quali la sollecitudine, la preoccupazione, l’attenzione e la relazione. Cura è, infatti, cura di sé e cura degli altri, dell’ambiente e del mondo. Cosa c’è di più strategico per il XXI secolo?
Viviana Vacca

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Novembre 2025
Chiara Bersani, Flavia Dalila D’Amico, Giulia Traversi

In dialogo con Chiara Bersani, Flavia Dalila D’Amico, Giulia Traversi

Prima di ogni cosa vorrei capire se ho capito. Crip nasce come riappropriazione politica della parola cripple, un insulto trasformato in forza, come è avvenuto per queer: dalla ferita si ricava un metodo, dal margine un modo di stare al mondo. Crip, dunque, non indica semplicemente un corpo disabile e non funziona come sinonimo di inclusivo: è una posizione critica che mette in discussione la normatività, il mito dell’autonomia, il valore morale attribuito alla produttività, la retorica dell’efficienza, la gerarchia silenziosa tra i corpi che “funzionano” e quelli che devono continuamente giustificare la propria presenza. A me Crip appare come una lente che interroga l’abilismo strutturale e smonta l’inganno dell’utilità regolare. Sul piano politico rivendica la vulnerabilità come condizione condivisa, non come difetto da correggere. Sul piano pratico diventa un metodo: una volontà che assume l’imprevisto come dato, la precarietà come condizione, il tremore come informazione, la lentezza come forma di resistenza. E quando parlate di futuro Crip, non intendete certo un futuro più accessibile dentro i parametri dominanti, ma la possibilità di riscrivere quei parametri, di immaginare altre forme di relazione e di rifiutare l’estrazione delle esperienze come valore di mercato.

Crip non è uno stato, interrompe la pretesa della norma di definirci: non designa un’identità fissata, né un’appartenenza da rivendicare. È una pratica, un esercizio continuo di attenzione al modo in cui tutti i corpi resistono e si adattano, cedono e resistono. Non è un distintivo, ma un gesto che sposta lo sguardo: un modo di rifiutare il modello abile come misura del valore umano. 

D. Il vostro testo nasce da appunti di lavoro? Come avete utilizzato questo passaggio dalla confidenza alla pagina, dal privato alla stampa?

R. Prima di ogni cosa è un carteggio intimo, uno scambio di pensieri, emozioni e pratiche di vicendevole sostegno. È stato chat, mail, bigliettini, lettere, podcast. Ora è diventato un libro, una piccola raccolta di segrete tattiche di respiro ai bordi del possibile. Accompagna il processo creativo di due produzioni di Chiara Bersani e nasce come un dialogo a tre voci, con diversi inizi e senza conclusione. È nato dalla necessità di stare insieme nel tremore, più che dal desiderio di costruire un oggetto. Poi si è trasformato in pagine scritte, non per arrestare il flusso desiderante dei nostri scambi, ma per condividere certe forme di intimità con ad altre mani, altri respiri. Ci assumiamo il rischio di questa trasformazione perché non è mai stata la nostra priorità proteggere la fragilità: semmai coltivarla come terreno di incontro e postura politica.

D. Scrivete che questa trasformazione è “contraddittoria, se non presuntuosa”. Avvertite così forte la contraddizione?

R. Non abbiamo scritto un decalogo su come rendere accessibile la società, né abbiamo tentato di riportare la norma alla norma o di estrarre dalla carne dati per un mondo migliore. Al contrario, abbiamo provato a rompere ogni struttura e ogni modello estrattivo, contestando la tendenza ad astrarre dalle vite teorie generiche. Il libro è uno slancio ad allenare la postura a parare l’imprevisto per generare pratiche trasformative. Congelare un tremolio, un pensiero, un’emozione, una paura, in una pagina stampata sa di astrazione, di estrazione. E noi volevamo sottrarci all’estrazione. Sappiamo che la scrittura fissa ciò che nella vita si muove. Sappiamo quindi che può suonare contraddittorio, se non presuntuoso, riportare i nostri scambi intimi su carta stampata. Ma abbiamo imparato a nutrirci delle contraddizioni come condizione esistenziale. Le contraddizioni, per noi, sono un modo di stare, la natura stessa delle nostre identità.

D. D’accordo, non offrite soluzioni né decaloghi. Perché rifiutate la struttura della guida, del manuale, dell’indicazione operativa?

R. Perché ogni tentativo di semplificazione tradisce la complessità dei corpi. Non c’è nessun decalogo su come rendere accessibile la nostra società, nessun tentativo di riportare alla norma. Non cerchiamo di aggiustare il mondo con un kit di istruzioni: cerchiamo di aprire spazi in cui il mondo possa smettere di essere così rigido. La nostra è una scrittura che vuole disordinare, non ordinare. Il corpo, per noi, è un corpo di suoni che diventa disturbo, rumore, riposo, paura. È eccesso di racconti situati che riportano le teorie alla concretezza dei fatti. È un luogo in cui la disabilità diventa metodo di scrittura, relazione e resistenza al capitalismo.

D. Il libro accompagna due produzioni artistiche, Michel – The Animals I Am e Left Behind. In che modo queste opere hanno plasmato la vostra scrittura?

R. Questi lavori sono stati come fratture nella superficie del quotidiano: richiedono cura, ascolto, riposizionamento. La scrittura si è lasciata attraversare dal processo creativo, dai corpi che provano e che abitano la scena, non come metafora ma come realtà materiale. Scrivere accanto a un processo performativo significa rimarcare che la teoria non venga mai prima della pratica. L’assemblaggio che si legge qui è uno slancio incauto a parare l’imprevisto, una rottura con il modello estrattivo, come dicevamo, che recupera dalle vite specifiche teorie generali. È una raccolta di inciampi sull’abilismo e sulla produttività sfrenata nelle arti performative, vista dalle nostre prospettive incarnate.

D. Uno slancio incauto a parare l’imprevisto… notevole! L’imprevisto come struttura non come incidente. Nelle Baccanti Euripide scrive: Le cose pensate, progettate, escogitate non si compiono. Il dio trova sempre la via dell’imprevisto. E Keynes 2300 dopo scrisse al direttore del “New Statesman and Nation”: “L’inevitabile non accade mai. Capita sempre l’imprevisto”. Perché l’imprevisto è centrale nel vostro lavoro?

R. Perché l’imprevisto è la nostra condizione. Non un incidente, non una deviazione: il centro. Siamo cresciute in un mondo che pretende pianificazione, prestazione, controllo. Ma la vita – soprattutto quella dei corpi vulnerabili – è proprio ciò che sfugge a ogni controllo. Allenare la postura a parare l’imprevisto significa smettere di vivere l’imprevisto come fallimento. Significa, invece, riconoscerlo come possibilità trasformativa.

D. “Un corpo di suoni che diventa disturbo, rumore, riposo, paura”: perché questa insistenza sul corpo e sulle sue vibrazioni?

R. Perché il corpo è la materia in cui viviamo e da cui scriviamo, così come la disabilità non è un tema, ma un metodo. Il corpo produce pensiero, produce ritmo, produce teoria situata. Siamo corpi che si infiammano, che oscillano, che si stancano, che desiderano. Siamo un coro di organi parlanti e non vogliamo ridurre questo coro a una voce singola, pulita, corretta. L’imperfezione, il disturbo, la pausa: tutto questo è conoscenza e pratica politica.

D. Parlate dell’impossibilità di ricondurre la vita a teorie generali. Qual è il pericolo dell’astrazione nei discorsi sulla disabilità?

R. L’astrazione trasforma la vita in case study. E l’estrazione – della quale parliamo spesso – è la tentazione di prendere dalle vite altrui ciò che serve a costruire sistemi, formule, modelli. Noi abbiamo provato a fare il contrario: restare nelle vite, nei corpi, nelle contraddizioni. Mettere in crisi la teoria quando è troppo comoda e semplicistica.

D. Vi rivolgete direttamente a chi legge: “tu che sei un coro di organi parlanti”, nel libro c’è questa volontà di interpellare così fisica ed empatica… 

R. Sai perché? Perché nessuno è immune dalla vulnerabilità. Perché chi legge non è mente pura: è un corpo. Volevamo spostare lo sguardo dal concetto astratto di lettore al corpo del lettore: ossa che scricchiolano, muscoli che si irrigidiscono, ormoni che oscillano. Il nostro è un tentativo di chiamare chi legge per ciò che è. Materia viva.

D. Parlate della carta come vicinanza e distanza. Cosa significa pubblicare un libro quando si sa che non tutti potranno leggerlo?

R. Significa assumersi una responsabilità politica. Ci chiediamo, certo, che cosa succede quando un discorso sulla disabilità prende la forma di un oggetto non accessibile a tutte le persone che ne sono protagoniste? 

La carta stabilisce una prossimità tattile, ma anche una distanza temporale, economica, fisica.

Il libro stampato non può essere tutto, né per tutte. Ad esempio non è accessibile a persone cieche. Ma può essere un frammento, un gesto, un appoggio momentaneo.

D. Il contesto storico in cui avete scritto – guerra, fascismi, crisi climatica – è dichiarato apertamente. Come influisce il mondo esterno su un libro così intimo?

R. Non si può parlare di vulnerabilità ignorando la violenza del mondo. Questo libro è scritto dentro un’aria densa: è l’aria della paura collettiva, dell’instabilità globale. Anche se non raccontiamo direttamente quegli eventi, li attraversiamo con il respiro. La precarietà non è estetica: è politica.

D. Desiderate che il libro “si sciolga presto al sole”. Come mai usate questa immagine così, come dire… anti-monumentale?

R. Perché non vogliamo che il libro diventi norma, né oggetto stabile. Lo vogliamo sfilacciato, instabile, permeabile. Un libro che si scioglie è un libro che continua a cambiare, a circolare, a trasformarsi nelle mani altrui. Non un oggetto da conservare, ma un gesto da attraversare. Ciò che resta è la nostra intenzione: farvi sentire il terreno scivoloso, instabile, fluttuante su cui gravitano i nostri corpi, economicamente precari e vertiginosamente desideranti.

D. Chi sperate incontri questo libro? Chi sperate si riconosca?

R. Chi sente la terra scivolargli sotto i piedi. Chi vive nella precarietà economica, affettiva, politica. Chi non cerca consolazioni, ma compagnia nel tremore. Chi sente che il mondo, così com’è, non può essere l’unico possibile.

D. Alla fine, cos’è per voi Prima di ogni cosa?

R. È un esercizio di respiro. È un territorio instabile e al contempo un tentativo di non sprofondare. È un atto di cura reciproca e di conflitto condiviso. È il nostro modo di dire che la vulnerabilità non è una debolezza: è un luogo da cui pensare, creare, resistere. Lo abbiamo scritto in tre, ma avremmo potuto essere in cento, perché le questioni sono come le piante infestanti. Nel groviglio noi siamo in tante: parole rovesciate nelle piazze, intuizioni prestate, argomentazioni incastrate. Il libro è un rito che evoca persone vive e morte, vicine e lontane. Questo libro nasce dal disordine e nel disordine esige rimanere.

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In realtà le aziende convenzionali in passato non se lo sono posto il dilemma e hanno scelto, senza ombra di dubbio, scrum. Ora, però, iniziano a dubitarne. Soprattutto quelle che hanno visto dipartimenti o società consociate adottare scrum e dopo quattro anni di impegno e di duro lavoro si ritrovano con in mano un pugno di mosche.
O meglio, la consociata strilla che sono agili perché fanno scrum, opportunamente arrangiato alla loro realtà, ma di fatto non lo sono (vedi Lesson Learned #01).

L’azienda gemella o consociata vede benissimo che di agile non hanno proprio nulla e che il loro modo di fare scrum è solo la forma esteriore che danno allo stesso solito modo di fare le cose, solo ordinato diversamente. E poiché ambiscono a diventare agili, ora il dilemma se lo pongono, eccome.

Scrum è sinonimo (improprio) di Agile

Perdonatemi. Ho dato per scontato che tutti sappiano che cosa è scrum. Rimedio.

Scrum è la metodologia Agile che ha avuto più successo delle altre per cui è diventata, durante la moda di diffusione Agile (2018-2023 in Italia), non solo la più diffusa ma anche sinonimo di Agile. Ovvero per definirsi Agile bastava aver implementato scrum.

Il termine scrum in business venne utilizzato per la prima volta da Ikujiro Nonake (Hitotsubashi University) e Hirotaka Takeuchi (Harvard University) in un articolo, divenuto famoso, apparso nel 1986 sulla Harvard Business Review dal titolo The New New Product Development Game.
Nonaka e Takeuchi avevano studiato alcune aziende che avevano creato un nuovo modo di sviluppare nuovi prodotti, non basato su gerarchie, procedure, catene di comando e processi decisionali top down. Questo nuovo approccio prevedeva team, composti da persone con competenze molto differenti, che prendevano le decisioni di sviluppo in modo autonomo.
L’associazione che venne loro spontanea fu lo scrum, la mischia del rugby, dove non un leader e neppure uno schema predeterminato guidano le decisioni, ma è il team che prende le decisioni in modo autonomo, sul momento a seconda dei movimenti del team avversario.

Ma torniamo ad Agile e Scrum. Negli anni ’90 gli sviluppatori di software si erano accorti che il tradizionale project management waterfall applicato allo sviluppo del software produceva risultati inquietantemente scadenti. Il che li spinse a sperimentare nuove strade.
Agli inizi degli anni ’90 esistevano già nuovi approcci metodologici come Extreme Programming. Nel 1996 i primi tentativi di elaborare una guida scrum ad opera di Ken Schwaber e Jeff Sutherland e nel 2001 la pubblicazione del Manifesto per lo sviluppo agile del software che dettava principi e linee guida.

Ma come funziona scrum?

Scrum è una metodologia focalizzata a far lavorare un team, composto da elementi con competenze diverse, focalizzato allo sviluppo del software.

Prevede dei ruoli precisi: lo scrum master, detentore della metodologia e facilitatore del team (inizialmente doveva essere esterno al team ma per ragioni di costi è finito per essere un componente del team). Il product owner che è responsabile del backlog [la board che raccoglie tutti i requisiti del software ordinato per priorità, quelle più precise (user story) da realizzare nell’immediato futuro, mentre le descrizioni più vaste (epiche) sono di lungo periodo]. Il product owner rappresenta il contatto con il cliente ed è responsabile di determinare le priorità in base alle richieste del cliente. Poi c’è il team di sviluppo responsabile delle decisioni dello sprint.
Quindi ci sono gli artefatti: il backlog di prodotto, il backlog dello sprint e gli incrementi.
Infine gli eventi, ovvero le diversi tipologie di meeting.

In estrema sintesi, scrum rappresenta il più cospicuo tentativo di dare una struttura ordinata, organizzata e regolata ai concetti alla base di Agile redatti nel Manifesto pubblicato nel 2001 ad opera di 17 sviluppatori.

Perché le aziende amano Scrum

Scrum, purtroppo, è diventato l’approccio metodologico perfetto per le aziende che volevano diventare Agile senza cambiare il sistema.

Dal punto di vista di un’organizzazione convenzionale, basata sul paradigma di predizione e controllo (evoluzione del più ancestrale paradigma di comando e controllo), non vi è nulla di più rassicurante di una metodologia prescrittiva, con ruoli definiti e ben delineati, che prevede cicli precisi in termini di tempo (gli sprint), in cui sono circoscritti la tipologia e la durata dei meeting a seconda della durata degli sprint. Rassicurante perché permette di pensare di avere per le mani il metodo che le trasformerebbe in organizzazioni adattive.
Nulla di più falso! Ma è l’approccio più vicino a ciò a cui sono già abituate: la convinzione che sia sufficiente adottare un metodo ‘one fit all’ e applicare il ‘copia e incolla’. E così fecero, e continuano a fare. Lo fanno adattando scrum alla loro realtà, spesso diluendo la metodologia nel loro modo usuale di lavorare. Quasi sempre abbandonandolo dopo diversi anni (in genere quattro).
Naturalmente i puristi di scrum, profondi conoscitori e applicatori del metodo, dicono che non è stato applicato rigorosamente e quindi non può funzionare. Può darsi. Va detto che scrum fu inizialmente implementato in aziende di sviluppo software e con la crescente moda manageriale di Agile si è diffuso nel resto dell’organizzazione, o meglio, in alcune parti dell’organizzazione, dove i manager vedevano minori rischi.

Ma vediamo cosa accade di solito quando si applica scrum.

Cosa accade quando si applica scrum

I team sono composti su criteri manageriali top down che tengono conto delle competenze dei singoli e quasi sempre sono team all’interno di un dipartimento, il team di sviluppo, il team di marketing e via dicendo. Quello che ho visto è che i rituali scrum si sovrapponevano ai meeting abituali creando un sovraccarico alle persone che vi lavoravano. Lo scrum master conduceva i meeting secondo il cerimoniale stabilito dal metodo, il che risultava vuoto e insignificante per i partecipanti che lo vivevano come uno spreco di tempo e chiedevano a viva voce di ridurre il tempo dei rituali. Quasi mai, poi, veniva condotta la fase iniziale di chartering (detta anche di inception o kickoff), fase in cui si costituisce il team come tale definendo il perimetro (scope), lo scopo di lungo periodo, i criteri di misurazione del successo delle attività, e gli working agreement, almeno quelli iniziali. Infine il product owner finiva per essere il manager o il project manager a cui veniva assegnato un nuovo nome e che, in sostanza, non cambiava certo il suo comportamento.

Quando ho preso in mano, come Agile Coach, team che già applicavano scrum la prima cosa che ho fatto è stato dire “dimenticate scrum” e ho proposto di ricostituire il team su basi diverse, attorno al value stream.

Perché Scrum da solo non basta a trasformare un’organizzazione

Veniamo ora alla principale criticità che ho incontrato nell’utilizzo di scrum. Se da una parte è vero che scrum permette ai team di migliorare le loro performance come team, dall’altra scrum è una metodologia focalizzata al miglioramento delle performance di ogni singolo team e non produce una sufficiente visione sistemica di come lavora l’organizzazione per portare valore al cliente.
Di questo si sono accorti anche i cultori di scrum e intorno al 2011 iniziarono a sorgere nuove metodologie di scale up con lo scopo di creare coordinamento tra i vari team: SAFe, LeSS, DAD, SoS e via dicendo.

Secondo il mio punto di vista, questi approcci rimangono chiusi all’interno delle convinzioni organizzative convenzionali che ne determinano i limiti. Vero è che anche in quegli anni iniziava a sorgere nello sviluppo del software l’approccio DevOps che pescava molti strumenti sviluppati nel Lean Thinking, tanto da spingere alcuni practioner a nominarlo Lean IT o sviluppo del software Lean basato sul processo piuttosto che su un metodo che stabilisce come il team debba interagire.

Di per sé scrum non ha nulla di male come metodologia. Solo che andrebbe applicata in un secondo momento quando i team stanno già lavorando in modalità agile, ovvero mentre costruiscono il nuovo modello operativo.

E comunque il mondo Lean Agile è cosi ricco di metodologie, strumenti e pratiche che è sempre meglio offrirle al team quando servono, quanto serve e quanto basta, e lasciare che siano loro a decidere se per loro funzionano e come applicarle.

🎧 Ascolta il podcast Agile Confidential #LessonsLearned su Spotify.

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Novembre 2025
Aldo Cazzullo, Gaia Tortora, Gian Domenico Caiazza

Mercoledì 3 dicembre ore 17:30, Palazzo Montecitorio

Presentazione di Storia di un sindaco da San Vittore all’assoluzione.

Indirizzo di saluto: Lorenzo Guerini, deputato. Ne discutono: Gaia Tortora, giornalista; Claudio Martelli, già Ministro di Grazia e Giustizia; Simone Uggetti, autore. Coautrice e moderatrice: Arianna Ravelli

Ingresso consentito sino alle ore 17:15. Per gli uomini è necessaria la giacca.
Sala della Regina a Palazzo Montecitorio  
Piazza di Monte Citorio 10, 00186 Roma
R.S.V.P. [email protected]

Premessa
di Aldo Cazzullo

[…] In questa storia, la chiave che apre la prima porta è una piscina. Una piscina comunale che deve essere gestita. La cosa più logica è che lo faccia la società del Comune, in questo caso Lodi. Per eccesso di zelo, il sindaco decide comunque di evitare l’assegnazione diretta ed emettere il bando. Probabilmente, un errore. Non un reato. A questa conclusione arriveranno i giudici. Ma quell’errore costa a Simone Uggetti la vita politica, e un pezzo di vita, quella vera.

Il racconto dell’arresto del sindaco di Lodi, magistralmente ricostruito dall’arte maieutica di Arianna Ravelli, è un colpo nello stomaco. Qualcosa che dovrebbe far vergognare tutti. A cominciare da noi giornalisti. “Un uomo da circo”, si definisce il sindaco. Esibito come una preda. Ci sono alcuni dettagli che ti fanno pensare: potrebbe succedere anche a ognuno di noi. L’arrestato condotto nello stesso luogo, davanti alle stesse persone, dove era stato pochi giorni prima come sindaco, per consegnare i premi alla festa della polizia. Il conducente dell’auto della Guardia di finanza che rifiuta la richiesta di non passare attraverso il centro della città, per non offrire a tutti lo spettacolo del sindaco arrestato: “Questo non è un taxi”. E il cellulare del finanziere intasato dai messaggi di congratulazione: perché quando arriva la notizia di un (piccolo) potente che va in galera, in tanti si rallegrano.

Anche se il (piccolo) potente non ha fatto nulla di male. E soprattutto non ha preso un euro. […]

Postfazione
di Gian Domenico Caiazza

Se non ci fosse in gioco la carne viva di una persona e dei suoi cari, la dignità umiliata di un politico per bene e della sua storia pubblica, dovremmo dirci cinicamente fortunati per aver assistito alla vicenda giudiziaria del Sindaco Simone Uggetti. D’altronde, lui per primo ne è a tal punto consapevole da aver deciso di scrivere questo libro, per raccontare, spogliandosi e mettendosi a nudo davanti a tutti noi, la sua storia incredibile. Mi è piaciuta molto la metafora del Kintsugi, che l’autore ha scelto per descrivere questo sforzo doloroso. Se una vicenda giudiziaria, politica e mediatica di questa ottusa e spietata violenza ti ha ridotto come un coccio di ceramica ridotto in pezzi, usi l’oro –come in quella formidabile tecnica artistica giapponese – per tenerli insieme, valorizzando le crepe e ridando a quel disastro una nuova dignità e bellezza.

Questa storia è dunque una occasione preziosa per tutti noi, perché la sua particolarità sta nell’essere inattaccabile nella sua solare semplicità. I fatti sono incontrovertibili, e lo sono per chiunque sia stato infine chiamato a giudicarli. Il Tribunale che ha condannato, la Corte di Appello che ha assolto, la Cassazione che ha annullato con rinvio, la Corte di Appello che, infine, ha nuovamente assolto, sebbene ora per “tenuità del fatto”, sono tutti concordi sulle decisive connotazioni dei fatti che hanno dato luogo alla contestazione del reato di turbativa d’asta, e che vale dunque la pena mettere in fila, semplicemente. […]

Non c’è nulla, in queste mie d’altronde perfino banali considerazioni, che possa avere seppure minimamente a che fare con una pretesa di impunità della politica, dalla quale dobbiamo pretendere il rispetto più rigoroso delle regole dell’etica pubblica. Ma proprio in considerazione delle conseguenze micidiali che una indagine giudiziaria comporta sull’ordinato svolgimento della vita democratica e delle sue istituzioni rappresentative, dovremmo poter pretendere dall’autorità giudiziaria una prudenza, una accuratezza investigativa, una rigorosa attenzione non solo nei mezzi investigativi adottati, ma perfino nelle parole usate negli atti giudiziari, che purtroppo vengono invece quasi sistematicamente a mancare, come questa storia dimostra in modo esemplare. È banale, infatti, osservare come questa piccola, mediocre, marginalissima indagine giudiziaria poteva senza dubbio alcuno essere egualmente svolta e portata a termine senza sconvolgere non solo la vita delle persone coinvolte ma, ripeto, soprattutto l’ordinato svolgimento della vita democratica di una comunità sociale.

Si è scelta invece la strada della irruzione precipitosa, violenta, esemplare e salvifica della “Giustizia” per sgominare il “Male” nella vita pubblica agli occhi di tutti i cittadini. Fino alla incredibile decisione dell’arresto e del carcere, che in una vicenda bagatellare come questa, appare per ciò che essa è: un atto di gratuita, indicibile violenza nei confronti di una persona per bene, costretta, per malriposti e approssimativi sospetti su un appalto di 5000 euro, a conoscere la più profonda e devastante delle umiliazioni. Il segno di quanto profonda possa essere stata la ferita inferta, senza ragione e contra legem (non può infliggersi una misura cautelare per fatti in ordine ai quali sia ragionevolmente prevedibile una pena inferiore a tre anni di reclusione) al Sindaco di Lodi, sta tutta nelle belle, dolorose parole con le quali egli descrive il carcere, dopo questa tremenda esperienza: “Luogo di forzata solidarietà, di disagi e piccole vergogne condivise, di coesistenza di destini”. Voglio augurarmi che la scelta di Simone Uggetti di raccontare questo suo dolore possa contribuire a diffondere quanto più possibile la consapevolezza di quanto inestimabile sia la difesa dei valori costituzionali della presunzione di non colpevolezza e di tutela e rispetto della dignità della persona.

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Una lezione di resistenza e di speranza
di Gaia Tortora


Ci sono storie che, una volta ascoltate, non si riescono più a dimenticare. Restano dentro, si insinuano tra i pensieri e ogni tanto tornano, come se chiedessero di essere raccontate di nuovo, per non lasciare che il silenzio o la superficialità le cancellino. La vicenda di Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, è una di queste. Una storia che parla di politica e di giustizia, certo, ma soprattutto di persone: delle loro vite, delle ferite subite, della capacità di resistere quando tutto sembra franare.

[…] L’arresto di un sindaco è una notizia che fa rumore, che attira titoli e servizi televisivi: e così, nel giro di poche ore, la vita di Simone fu stravolta. Non era più un uomo, né un amministratore, ma “il caso Uggetti”. Il meccanismo della gogna pubblica si era messo in moto, alimentato da immagini, commenti, insinuazioni. E in quel frullatore mediatico, la presunzione d’innocenza era scomparsa, come troppo spesso accade.
Chiunque abbia vissuto un’esperienza simile – e io so cosa significhi l’accanimento mediatico – conosce il senso di smarrimento che ti prende. Si diventa personaggi di una narrazione che altri scrivono al posto tuo. Ti guardi allo specchio e non ti riconosci più, perché il volto riflesso non è quello che rimbalza sugli schermi o sulle pagine dei giornali. È una frattura difficile da ricomporre, perché non riguarda solo il presente, ma lascia segni profondi nel futuro, nelle relazioni, nella percezione di sé.

[…] Il libro che oggi Simone ha scritto non è soltanto la cronaca di una vicenda giudiziaria: è un atto di testimonianza civile. È il racconto di una caduta e di una rinascita, ma soprattutto è un monito. Perché dietro ogni titolo, dietro ogni processo mediatico, ci sono persone in carne e ossa, con famiglie, affetti, vite sospese. E troppo spesso ce ne dimentichiamo, travolti dalla velocità del consumo di notizie.

Il caso di Simone ci ricorda quanto sia fragile la linea che separa il diritto di cronaca dalla spettacolarizzazione della giustizia. Quando la libertà individuale e la dignità delle persone diventano materiale da prima pagina, c’è il rischio che la verità giudiziaria arrivi troppo tardi, e che, nel frattempo, la vita sia già stata compromessa irreparabilmente. Simone ha avuto la forza di raccontare, di non rimanere nel silenzio. Ma quanti, invece, rimangono prigionieri di un marchio infamante, senza più riuscire a liberarsene?
La storia di Simone Uggetti, così come la incontro in queste pagine, è una lezione di resistenza e di speranza. Resistenza all’ingiustizia, all’accanimento, al pregiudizio. Speranza che, nonostante tutto, si possa tornare a credere nella giustizia come strumento di verità e non come arma di distruzione. E se c’è un merito grande in questo libro, è quello di restituire umanità a una vicenda che i riflettori avevano disumanizzato.

Quello che auguro a chi leggerà queste pagine è di fermarsi a pensare: dietro ogni “caso” c’è una storia. Dietro ogni titolo, un volto. Dietro ogni accusa, una vita che merita rispetto. La vicenda di Simone è dolorosa, ma è anche un invito alla responsabilità collettiva, soprattutto per chi racconta e per chi ascolta. Perché la giustizia, per essere davvero giusta, ha bisogno non solo di tribunali equi, ma anche di una società capace di aspettare, di non giudicare troppo in fretta, di non confondere la cronaca con la verità.

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Novembre 2025
Fabio Lisca


“Basta un poco di zucchero e la pillola va giù…” 🎵

Tutte le organizzazioni vogliono diventare agili 

O meglio, quasi tutte. Per essere più precisi, quelle molto grosse, internazionali, multinazionali, a cui l’headquarter ha imposto di diventare agili. Quelle che l’agility gliel’hanno spiegate le grandi, grosse, grasse società di consulenza che, una volta che se ne sono andate, hanno lasciato queste organizzazioni in ‘brache di tela’.

Sì perché le società di consulenza fanno più o meno quello che Phil Abernathy mi raccontò con una barzelletta: un topolino si è perso in un immenso campo di grano e non sa come uscirne. Gira e rigira non riesce a trovare una via di uscita fino a quando scorge l’unico albero su cui era appollaiato un piccione. Il topolino si avvicinò all’albero e chiese al piccione di aiutarlo indicandogli la direzione per uscire dal labirinto di grano. Il piccione ci pensò su a lungo, quindi disse al topolino, “ho un’idea migliore! Disegnerò per te una strategia”. Il topolino sorpreso dall’uscita del piccione ne fu lusingato e accettò l’offerta. Il piccione, quindi, decretò “è semplice, fatti crescere le ali così potrai alzarti in volo e uscire dal campo”. “Fantastico” disse il topolino, “ma come faccio a farmi crescere le ali?”. Il piccione prontamente ribatté “io mi occupo di strategia, l’implementazione sono affari tuoi” e volò via. Una volta volata via la consulenza le aziende si rivolgono agli Agile Coach i quali, di solito, sottolineano e ribadiscono di non essere dei consulenti e quindi di non aspettarsi soluzioni pronte.

Vogliamo diventare un’organizzazione adattiva (ma a quale prezzo?)

L’Agile Coach chiede subito al management team perché l’organizzazione vuole diventare Agile e sa benissimo che hanno letto della ricerca del The Economist e MIT che dichiara che le organizzazioni Agile crescono del 37% più velocemente e fanno il 30% in più dei profitti delle organizzazioni convenzionali.

Se si tratta di aziende di sviluppo software conoscono il CHAOS Report, una ricerca sulla stato dello sviluppo del software a livello mondiale che Standish Group conduce dal 1994 e che negli anni 2000 mise in evidenza che più dell’84% dei progetti software veniva ritenuto un fallimento e che i costi di adattamento sarebbero stati troppo elevati per metterci mano. Inoltre più dell’80% delle funzionalità erano totalmente inutili, non sarebbe mai state utilizzate, ma avrebbero sicuramente rallentato la velocità di funzionamento del software, all’epoca ancora installato sul disco rigido dei PC.

Comunque il management risponde all’unisono perché vogliamo diventare un’organizzazione adattiva.

Fantastico, pensa l’Agile Coach, mentre è intento a sottolineare e ribadire che esistono però dei prerequisiti essenziali. Quali?

Eccoli, li chiamiamo fattori critici di successo, come piace al management:

L’ossessione per il cliente.

Parlo di ossessione non di orientamento al cliente. Il cliente è da dove si parte e dove si finisce. Il cliente stabilisce che cosa ha valore e cosa no. Per capirci cito un esempio. Haier, azienda cinese che fabbricava frigoriferi scadenti per il mercato cinese, risorta nel 1984 orientandosi alla qualità e all’ossessione per il cliente. Quando scoprì che in una regione della Cina erano richieste un eccesso di riparazioni di lavatrici, andò sul posto ad indagare (genchi genbutsu in giapponese: vai a vedere di persona). Scoprì che i contadini usavano le lavatrici per lavare le patate. Al posto di diffidarli da quell’uso poco corretto del macchinario, come avrebbe fatto qualsiasi organizzazione convenzionale con minaccia di sospensione della garanzia e del servizio di riparazione, costruirono una lavatrice apposta per lavare le patate. Oggi Haier è una multinazionale leader mondiale del bianco.

L’autonomia di persone e team.

L’autonomia è un fattore fondamentale nel mindset Lean Agile. Possiamo affermare, in estrema sintesi, che l’agility organizzativa consiste nello spostare decisione e controllo al livello operativo il più basso e delocalizzato possibile. Questo significa autonomia di persone e team. Tutte le aziende estremamente adattive, anche se non si dichiarano agili, ma lo sono di fatto, sanno che senza autonomia di persone e team non si ha responsabilità. Sanno anche che questa autonomia comporta il vincolo di condividere le decisioni con coloro sui quali queste decisioni avranno un impatto per ottenere un miglioramento complessivo che porta vantaggio a tutti. Questo significa creare dei meccanismi perché ciò possa avvenire. Le aziende convenzionali amano la parola empowerment. Ma è un concetto limitante poiché comporta il dare potere a chi non ce l’ha. Comporta la delega e l’autonomia non prevede la delega, prevede di avere il potere.

Slow Down to Go Faster.

Fermarsi per pensare prima, pianificare, preparare ed eseguire velocemente. Poi, di nuovo, fermarsi per riflettere su ciò che si è fatto allo scopo di migliorarlo nella iterazione successiva. Questo implica una ciclicità focalizzata sui problemi e la loro soluzione definitiva risalendo alla causa radice del problema, in piena contraddizione con le organizzazioni convenzionali che evitano i problemi e quando arrivano li risolvono frettolosamente mettendo una bella pezza. Inutile dire che il problema si ripeterà all’infinito creando la figura del ‘pompiere’, molto stimato e premiato in queste organizzazioni. Ma questo atteggiamento inalza il livello della variabilità (mura in giapponese), che causa sovraccarico (muri), che genera sprechi (muda) ed ecco creato il circolo vizioso delle urgenze/emergenze, spesso creato proprio dai ‘pompieri’. Il problema delle organizzazioni convenzionali è che sono orientate esclusivamente al FARE focalizzate sui risultati di output, in questo modo queste organizzazioni si condannano a fare sempre e solo le stesse cose, si condannano a non poter cambiare. “Se avessi a disposizione sei ore per abbattere un albero, ne passerei quattro ad affilare l’ascia” Abraham Lincoln.

La regola 94/6. “Il 94% della variazione nelle performance è dovuto al sistema e solo il 6% al fattore umano” W. Edwards Deming.

Occorre cambiare il sistema, non le persone. La conseguenza è che alle persone deve essere data l’autonomia di cambiare il sistema, quindi i processi, il loro modo di lavorare. Naturalmente vi sono diversi approcci per farlo. Altra conseguenza è che se non cambia la struttura dell’organizzazione nel tempo non cambia il sistema. Quindi bisogna essere consapevoli di questo. Ulteriore conseguenza è che anche il comportamento dei manager cambia e quindi devono essere formati e preparati. Che il miglioramento continuo, alla base delle organizzazioni adattive e fondato sulla focalizzazione sui problemi, è un’attività quotidiana, non una tantum.

No, non basta un poco di metodo

Sottolineato e ribadito tutti questi quattro concetti all’organizzazione che mi ingaggia, ma non ci metto molto a capire che credono fermamente di aver assoldato Marry Poppins e che pensano che i suoi poteri magici saranno in grado di trasformare l’intera organizzazione in un batter d’occhio senza cambiare la struttura dell’organizzazione, senza toccare il comportamento dei manager, senza argomentare sulla costituzione dei team top down, su criteri poco comprensibili e spesso aleatori, senza mettere in discussione gli obiettivi dati ai team dal top manager, senza poter chiedere ai team di fermarsi a riflettere perché il management chiede risultati di output in tempi brevi, senza fare la fase di chartering e costruire l’architettura collaborativa basata sulla sicurezza psicologica, così poco presente nelle organizzazioni convenzionali.

Ed è in quel momento che inizia il ritornello:

Basta un poco di metodo
E Agil diventerai
E Agil diventerai
Basta qualche strumento
E ogni problema sparirà
Basta qualche rituale
E tutto sarà più semplice e seren
Dovrai capir
Che il trucco è tutto qui:
Basta un poco di metodo
E agile diventerai
E l’azienda brillerà di più!’

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Facile! Da cliente: dal livello di burocrazia che l’organizzazione ti infligge. Anzi peggio. Da quanto ti fa sentire sfruttato

Storia vera di (dis)servizi 

Vi racconto quanto mi è accaduto di recente. Mi sono accorto che i prezzi del fornitore di un servizio, di cui non posso fare a meno, erano più alti dei suoi concorrenti. Ho fatto qualche ricerca e prima di agire ho chiamato uno dei loro rappresentanti che è sempre stato molto disponibile. Infatti mi ha dato delle indicazioni utili. Mi ha detto “invia una lettera di disdetta del contratto e vedrai che ti contatteranno per farti una migliore offerta”. A questo punto agisco, scrivo, invio. Passa qualche tempo che arriva l’offerta. Più del 30% in meno? Accidenti! Solo questo fa venire voglia di cambiare fornitore! Se potevate venire incontro al cliente perché aspettate sempre e solo che sia il cliente a doverlo sollecitare?

Vero è che molti consigliano ogni due anni di cambiare fornitore per ottenere offerte migliori. Ma è un giochino scomodo per un cliente e non induce certo a riconoscere il valore fornito, anzi. Tra l’altro senza nessuna garanzia di qualità del servizio. Poi scopro anche che mi avevano aggiunto un ulteriore servizio, mai espressamente richiesto, di poca spesa ma di nessun valore. Perché?

Perché queste aziende convenzionali sono fondate sul profitto e sullo sfruttamento dei clienti. Peggio, prima di ricorrere al rappresentante ho tentato di navigare il sito per scoprire come ottenere le migliori offerte che campeggiavano proprio nella home page del sito. Impossibile: se sei già cliente le migliori offerte non sono a te riservate (pessima customer experience). Per questo ho pensato di ricorrere al rappresentante e di chiedere consiglio. 

Non è finita. 

Una volta ricevuta la documentazione la firmo e la invio al rappresentante che dopo qualche ora mi chiama per dettagli burocratici da inserire nella documentazione. Ma non sanno già tutto di me? Hanno addirittura la domiciliazione bancaria! “Sai, sono molto fiscali” mi dice il rappresentante (fiscale è sinonimo di severo, pignolo, rigido, vessatorio, in una parola burocratico). “E molto poco agili” aggiungo io. 

Se rimango con questo fornitore è grazie al buon rapporto e all’attenzione del rappresentante. A volte mi sembra quasi un rapporto di amicizia, il che mi fa sentire accudito, anche se ci sentiamo solo ogni due o tre anni. All’opposto detesto il fornitore e il desiderio sarebbe quello di non averci mai più a che fare. Mi consolo pensando che sono tutti uguali, ma è una sensazione sconfortante.

La nascita dell’Agile in Italia (e i suoi primi fraintendimenti)

Perché vi racconto questa storia?

Perché l’onda dell’agility organizzativa in Italia è iniziata tra il 2018 e il 2019 e l’azienda di cui vi sto parlando ha iniziato in quegli anni una trasformazione Agile.

Nel 2018 ho fondato Agile School pensando che i tempi per parlare del Mindset Lean Agile fossero maturi. In realtà solo grandi gruppi, spesso multinazionali, avevano iniziato in Italia ad avvicinarsi ai concetti alla base di questo mindset. Molti non avevano conoscenza di che cosa si stesse parlando e, meno che mai, avevano alcuna forma di consapevolezza. 

Il problema è che neanche le grandi aziende multinazionali ne avevano consapevolezza, o almeno le loro branch italiane. Così, quasi tutte iniziarono nel modo più convenzionale: disegnando la struttura organizzativa top down, stabilendo i ruoli, identificando i componenti dei team all’interno dei dipartimenti già esistenti e, soprattutto, credendo che il modo giusto di procedere fosse quello di implementare una metodologia. La metodologia più in voga allora era Scrum. E così l’azienda di cui vi sto parlando iniziò implementando Scrum. In poco tempo dichiarano di essere diventati Agile.

Lo dico perché avendo seguito diversi convegni, conferenze, workshop in quegli anni erano sempre presenti con dichiarazioni: “noi siamo agili, noi siamo diventati un’organizzazione agile”, a tal punto che volevano vendere la loro esperienza e metodologia ad altre organizzazioni. 

I loro Scrum Master e Agile Coach interni proclamavano successi straordinari. Erano entusiasti della metodologia Agile e volevano essere gli evangelizzatori di tutto il mondo. Invitai uno di loro a partecipare ad un workshop e portare il suo contributo. Brillante? Sì! Conosceva bene la metodologia, applicava molte tecniche specifiche, era convincente. Ma era anche arrogante, superficiale, poco incisivo. Erano abituati ad applicare metodi e tecniche senza considerare l’essenziale. La cultura che permette a quelle metodologie, tecniche, strumenti di essere efficaci, non solo apparenza. Il Mindset Lean Agile é sostanza non apparenza.

Come si capisce che un’organizzazione è davvero agile?

Questo è il punto!

Molte di queste organizzazioni hanno frainteso che cosa significa essere agili pensando che si trattasse semplicemente di implementare una metodologia, di fare Agile. Diversi Agile Coach davano man forte a questa convinzione postando e scrivendo che fare agile significava essere agile, mentre è vero il contrario. 

Il problema è che per essere agili è necessario partire dai bisogno del cliente e porre continuamente attenzioni a questi bisogni per fornire costantemente valore al cliente, il che significa costantemente migliorare il prodotto o/e il servizio che si fornisce. Probabilmente nessuna di queste aziende che si sono proclamate Agile lo sono, ne sono mai state. 

Ma come si capisce che un’organizzazione è davvero agile?
Da clienti, dal livello di burocrazia che si è costretti a subire e dalla prontezza di risposta del servizio.

Chi non ha sperimentato l’impotenza di non riuscire a contattare nessuno mentre risponditori automatici ti rimbalzano da un numero all’altro? Internamente dal fatto che non è cambiata la struttura organizzativa, che i team sono team dipartimentali, che i dipartimenti permangono centri di potere, che il comportamento dei manager è lo stesso di prima. 

Non si può portare valore al cliente se la struttura dell’organizzazione non cambia e Agile è solo flatus vocis. 

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Ottobre 2025
Cosa l’intelligenza artificiale generativa ci dice dell’essere umano
Claudio Paolucci

Riportiamo qui il primo capitolo di Nati cyborg di Claudio Paolucci.
[disponibile dal 12 novembre, 144 pagine, 12 euro]

Nietzsche diceva che non è mai alle origini che qualcosa può rivelare la sua essenza, ma che una cosa può rivelare ciò che era fin dalle origini soltanto a una svolta della sua evoluzione. Credo che l’intelligenza artificiale generativa rappresenti questa svolta e che l’essenza che viene rivelata dai nuovi enunciati macchinici, a una svolta della nostra evoluzione, sia proprio la nostra di esseri umani. Di fronte alle nuove macchine che hanno linguaggio, siamo noi a essere in gioco e le macchine ci mostrano ora, profondamente e chiaramente, qualcosa di importante sulla nostra stessa essenza e sul nostro funzionamento.

Infatti, nella mia tradizione, quella della semiotica, della linguistica e della filosofia del linguaggio, si è spesso individuata proprio nel linguaggio l’essenza stessa dell’essere umano. Si è giustamente fatto notare che il celeberrimo “zoòn lògon èchon” di Aristotele non potesse essere tradotto, come si era fatto invece per secoli, con “animale razionale”. E questo non solo perché “ratio” non è una traduzione fedele del latino “logos”, ma perché nell’essere umano il comportamento razionale è talmente raro che, piuttosto che costituirne l’essenza, ne costituisce una specie di telos, che pochi conquistano, con fatica e dedizione. Credo che la rarità del comportamento razionale nell’essere umano sia esperienza quotidiana condivisa da molti e tutti agiamo e prendiamo spesso le nostre decisioni innanzitutto sulla base di emozioni e passioni. E forse è per questo che proprio Aristotele, nella Politica, insisteva sul fatto che, al fine di vivere assieme in società, fosse necessario modulare le nostre passioni (pathe) attraverso il logos. Non a caso, Maurizio Ferraris, con un’intuizione apparentemente provocatoria ma della cui lucidità ci accorgeremo presto, diceva che l’essenza dell’uomo non fosse affatto la razionalità, bensì l’imbecillità: “imbecille” significa infatti “debole”, “senza bastone” (in-baculum), “debole” proprio in quanto “in-baculum”, senza protesi e ausili esterni a cui appoggiarsi. L’essenza dell’uomo sarebbe allora quella di dover costruire queste protesi, ibridandosi all’ambiente, per emanciparsi attraverso macchine e protomacchine dalla sua condizione di costitutiva debolezza. Torneremo più avanti su tutti questi temi.

È forse proprio per questo che si è pensato che “zoòn lògon èchon” potesse essere tradotto con “animale dotato di linguaggio”, o “animale che pensa attraverso il discorso”: “il parlare non è tanto attività biocognitiva unica e specie-specifica che si aggiunge ad altre attività che l’uomo ha in comune con altri viventi quanto, piuttosto, attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorganizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli altri animali non umani: percezione, immaginazione, memoria, desiderio, socialità” (Lo Piparo).

Per questo la costruzione di macchine capaci di parlare, di macchine capaci di enunciazione sia verbale che non-verbale, rappresenta una vera e propria svolta della nostra evoluzione, essendo in grado di riorganizzare tutte le nostre attività cognitive. Anche qualora non si pensi che l’essere umano sia l’unico animale dotato di linguaggio (cfr. Andrews, Paolucci), di sicuro ChatGPT e le altre intelligenze artificiali generative sono certamente i primi non-animali dotati di linguaggio. Per questo, la tendenza contemporanea è quella di negare loro questa capacità, dicendo di volta in volta che di fatto non capiscono né esprimono significati, che manipolano sintatticamente soltanto il piano dell’espressione dei linguaggi, che quello che fanno è soltanto rielaborare il già detto attraverso pesi statistici, che parlano un linguaggio che è soltanto una grammatica senza contenuti, mancando di comprensione e autoconsapevolezza. L’espressione più iconica formulata in questi anni da chi assume queste posizioni e nega che l’IA generativa sia il primo non-animale che ha linguaggio è forse quella di Bender e colleghi, che in un convegno fondativo del 2021 hanno definito ChatGPT “un pappagallo stocastico”. Nella tradizione della semiotica è stato di recente Stefano Bartezzaghi a riformulare perfettamente questo concetto con una delle sue solite formule illuminanti: quello che dice ChatGPT “non è detto che sia vero, ma certamente è vero che è stato detto”. 

Siamo allora di fronte a un’alternativa messa molto bene in luce da Pierluigi Basso Fossali: o l’IA è un’Ersatz della cultura, che parla un surrogato del linguaggio umano ed è dotata soltanto di un simulacro della nostra intelligenza, oppure essa rappresenta una forma di mediazione nuova, che, come il linguaggio per l’animale umano, riconfigura e riorganizza tutte le nostre attività semiotiche e cognitive in modi del tutto inediti, impensabili fino al 2021, quando “Transformer” era solo il singolare di una nota serie di blockbuster. 

In questo lavoro argomenterò in favore della seconda tesi, lavorando sul nesso tra intelligenza, debolezza e necessità di ibridarsi all’ambiente, nonché sulle questioni della rielaborazione del già detto, del linguaggio e del significato. Nello strano bestiario dell’intelligenza artificiale, si passa forse con troppa fretta dall’essere umano al pappagallo, senza considerare ciò che conta davvero: le ibridazioni che fanno funzionare ogni natura, in cui l’orchidea può riprodursi solo grazie alla vespa che l’impollina e si estingue là dove si estingue quest’ultima. Per questo il titolo, omaggio esplicito al pioneristico lavoro di Andy Clark, pone fin da subito al centro di questo libro la forma “cyborg”: un essere che combina elementi organici e non-organici, meccanici o elettronici, con l’obiettivo di mostrare che questa forma cyborg – che innesta protesi e interfacce a cui deleghiamo parti fondamentali del nostro lavoro cognitivo – sia in forma profonda e non banale la natura stessa dell’essere umano. E lo sia fin dal principio e ben prima dell’intelligenza artificiale

Insomma, quando nel 1960 Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline introducevano la forma “cyborg” in riferimento alla loro idea di un essere umano potenziato per sopravvivere in ambienti extraterrestri inospitali, stavano in realtà descrivendo quello che noi esseri umani abbiamo fatto qui, sul pianeta Terra, e di cui l’intelligenza artificiale generativa rappresenta l’ultima svolta, quella che riguarda proprio quella capacità che per secoli ci siamo attribuiti come nostra unica essenza e specificità, quella che ci differenzia da tutto il resto su questo pianeta: la capacità di linguaggio e di enunciazione.

Vorrei insomma prestare estrema attenzione a queste nuove macchine dotate di linguaggio, che rappresentano un nuovo bastone per le nostre attività cognitive, a cui ci appoggiamo e a cui concateniamo la nostra parola in prima persona.


Nati cyborg racconta la vera rivoluzione che l’intelligenza artificiale ha scatenato: non quella delle macchine, ma la nostra. Quando la macchina ha sconfitto il campione mondiale di Go è infatti successo qualcosa di profondamente diverso rispetto a quando la macchina aveva sconfitto il campione mondiale di scacchi: non abbiamo assistito alla gloria di un algoritmo, abbiamo visto rivelarsi, in controluce, il funzionamento più profondo dell’intelligenza umana. Partendo dalle nuove macchine dotate di linguaggio e passando per allucinazioni, intelligenza zero, soggettività, menzogne, stanze cinesi, menti estese, pappagalli stocastici, imbecillità e miti del significato, Nati cyborg mostra come, per evolvere, l’essere umano deleghi da sempre all’ambiente nuovi pezzi di se stesso: attraverso utensili, scritture e tecnologie, ogni volta ci trasformiamo, diventiamo ibridi, ci scopriamo cyborg. Oggi l’IA generativa non è un oggetto estraneo: è il nuovo specchio in cui riconosciamo chi siamo e chi stiamo diventando. Questo libro ci guida dentro quell’enigma, mostrandoci come l’intelligenza artificiale parli, prima di tutto, di noi stessi.

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Ottobre 2025
Da San Vittore all’assoluzione
Gian Domenico Caiazza

Riportiamo qui la postfazione a Storia di un sindaco. Da San Vittore all’assoluzione di Simone Uggetti con Arianna Ravelli.
Con una prefazione di Aldo Cazzullo e un contributo di Gaia Tortora.
[disponibile dal 5 novembre, 256 pagine, 16 euro]

Se non ci fosse in gioco la carne viva di una persona e dei suoi cari, la dignità umiliata di un politico per bene e della sua storia pubblica, dovremmo dirci cinicamente fortunati per aver assistito alla vicenda giudiziaria del Sindaco Simone Uggetti. D’altronde, lui per primo ne è a tal punto consapevole da aver deciso di scrivere questo libro, per raccontare, spogliandosi e mettendosi a nudo davanti a tutti noi, la sua storia incredibile. Mi è piaciuta molto la metafora del Kintsugi, che l’autore ha scelto per descrivere questo sforzo doloroso. Se una vicenda giudiziaria, politica e mediatica di questa ottusa e spietata violenza ti ha ridotto come un coccio di ceramica ridotto in pezzi, usi l’oro –come in quella formidabile tecnica artistica giapponese – per tenerli insieme, valorizzando le crepe e ridando a quel disastro una nuova dignità e bellezza.
Questa storia è dunque una occasione preziosa per tutti noi, perché la sua particolarità sta nell’essere inattaccabile nella sua solare semplicità. I fatti sono incontrovertibili, e lo sono per chiunque sia stato infine chiamato a giudicarli. Il Tribunale che ha condannato, la Corte di Appello che ha assolto, la Cassazione che ha annullato con rinvio, la Corte di Appello che, infine, ha nuovamente assolto, sebbene ora per “tenuità del fatto”, sono tutti concordi sulle decisive connotazioni dei fatti che hanno dato luogo alla contestazione del reato di turbativa d’asta, e che vale dunque la pena mettere in fila, semplicemente. 

1. Si è trattato di un bando di gara del valore di € 5000,00 (dicesi cinquemila euro); 2. Il valore modestissimo della gara avrebbe consentito, del tutto legittimamente, l’affidamento diretto anziché il bando di gara; 3. La turbativa della regolarità dell’asta è consistita in un incontro del Sindaco con l’avvocato Marini, amministratore della società comunale che già gestiva le altre piscine della città, per chiedergli se a suo parere fosse meglio il bando o l’affidamento diretto; 4. L’avvocato Marini, contro lo stesso interesse della società pubblica da lui amministrata, suggerisce la strada del bando, e il sindaco lo segue; 5. L’obiettivo del Sindaco è sempre e solo stato quello di affidare la gestione del nuovo impianto alla Società del Comune; 6. Il sindaco non ha coltivato il benché minimo interesse economico personale nella intera vicenda, né ha in alcun modo favorito quello di terzi; 7. Altre ditte non hanno partecipato al bando ritenendo la gestione di quella piscina non conveniente da un punto di vista economico.

Questi fatti, devo ripetermi, sono riconosciuti come del tutto pacifici, provati e non controvertibili in tutti i vari gradi di giudizio dell’intera vicenda processuale. 
Voi comprendete benissimo, allora, il valore pedagogico inestimabile di questa dolorosa vicenda, capace di illuminare senza zone d’ombra, senza margini di opinabilità, senza possibili letture alternative, il degrado stupefacente del nostro sistema giudiziario, la radicata alterazione degli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, le dinamiche velenose e putrescenti del famoso “circolo mediatico-giudiziario”. Perché tu puoi pure urlare ai quattro venti, ritmando “onestà-onestà” ai piedi delle adorate ghigliottine, che l’etica del Pubblico Amministratore modello avrebbe precluso al Sindaco quell’incontro e, una volta iniziate le indagini, spaventato, di ipotizzare la “formattazione dei computer” (mai effettuata, per di più); ma questo non ti consentirà mai di trasformare l’acqua potabile in liquame di fogna. I fatti sono quelli, implacabili. Non solo la modestia ridicola dell’appalto, ma ancor prima il fatto che il Sindaco avrebbe potuto legittimamente assegnare in modo diretto la gestione della piscina alla Società pubblica, senza doversi inspiegabilmente industriare nel tentativo di indirizzare indebitamente l’appalto per ottenere il medesimo risultato, in ogni caso del tutto conforme al pubblico interesse. 

E allora, se questi sono i fatti, la prima domanda che una persona normale avrebbe il dovere di porsi è molto semplice: cosa c’entra, in tutto ciò, l’autorità giudiziaria penale? Se una solerte, ovviamente indignata e altrettanto verosimilmente non del tutto disinteressata “cittadina modello” denunzia gravi irregolarità in quell’appalto bagatellare, è giusto verificare; ma una volta chiariti i termini della questione, di cosa si impiccia la Procura della Repubblica? E invece accade non solo che quella Procura si avventa sulla denuncia come se fosse l’inchiesta del secolo, ma addirittura chiede e ottiene prima di intercettare lungamente gli indagati (atto investigativo che il nostro codice qualifica e regola come eccezionale), poi di inoculare il trojan nel telefono del sindaco (atto investigativo che il nostro codice qualifica e regola come doppiamente eccezionale), e infine addirittura di incarcerare il sindaco e i suoi sodali. 
Ho detto bene “chiede e ottiene”, perché in Italia si parla dei PM, mai dei GIP che troppo spesso accolgono con sistematico, ossequioso entusiasmo le richieste delle Procure. Eppure, il sistema procedimentale è costruito dal legislatore proprio sulla funzione di controllo giurisdizionale delle indagini, affidata all’ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari e del Giudice dell’Udienza Preliminare.
L’idea è che l’ipotesi investigativa, per sua natura unilaterale anche perché fortemente condizionata dal tendenziale pregiudizio accusatorio della Polizia Giudiziaria inquirente, venga vagliata – pur nella inevitabile sommarietà della fase – proprio dal Giudice per le Indagini Preliminari, ogni qual volta egli venga raggiunto da richieste investigative destinate a incidere sui diritti fondamentali delle persone indagate (intercettazioni, trojan, misure cautelari). 
Ed è qui che la persona normale (e in buona fede) di cui sopra dovrebbe necessariamente porsi la seconda domanda: ma è mai possibile che per una vicenda del genere un sindaco in carica, democraticamente eletto dalla maggioranza dei cittadini, debba essere prima intercettato addirittura con un trojan, e poi trascinato nella polvere, umiliato e distrutto dalla traduzione in carcere? Non solo questo è incredibilmente accaduto, ma il GIP di Lodi ha ben pensato di ufficializzare lo stigma del disprezzo sociale, qualificando il povero Sindaco Uggetti come persona “abietta”. Sarà anche un problema di buon governo della lingua italiana, ma insomma vi sono pochi dubbi sulla inevitabile consapevolezza del fatto che qualificare in un atto pubblico, giustificativo della custodia in carcere, una persona, per di più primo amministratore della città, come “abietta” equivale a porre quella persona nel gradino più basso del giudizio morale. Ora, ditemi voi quali tracce, seppur vaghe, di umana “abiezione” è mai possibile rintracciare in questa grottesca vicenda di presunta turbativa di un appalto di 5000 euro pacificamente in favore e a tutela – a tutto concedere un po’ “garibaldina” – dell’interesse pubblico. 

La risposta a questa domanda pone finalmente la vicenda nelle sue giuste coordinate, chiarendone il valore simbolico di un degrado politico-giudiziario che ha le sue radici, ovviamente, ben oltre e ben al di fuori della città di Lodi. È dai prima anni 90 che l’indagine giudiziaria è diventata il principale strumento regolatore delle dinamiche politiche. Indagare un politico o un pubblico amministratore significa incidere in modo decisivo sulle sorti politiche e amministrative della comunità sociale interessata, sia essa locale che nazionale. La pubblica opinione, anche comprensibilmente sfiduciata da diffusi episodi di illegalità nella gestione della cosa pubblica, ha progressivamente affidato all’autorità giudiziaria la funzione sociale di promuovere i buoni e punire i cattivi. I Pubblici Ministeri sono inevitabilmente consapevoli dell’enorme potere affidato nelle loro mani, sicché l’indagine sull’uomo pubblico, politico o amministratore che sia, viene colta sin dall’inizio nel suo valore etico, simbolico, pedagogico. Si tratta di una alterazione micidiale dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, che ovviamente porta al rischio che la finalità etica e simbolica della indagine finisca per sopraffarne il merito, facendo smarrire del tutto il senso delle proporzioni, e più in generale la finalità e le ragioni di una inchiesta giudiziaria.

La vicenda Uggetti è la fotografia perfetta di questa drammatica deriva. L’abietto sindaco ha dovuto conoscere, per una vicenda di nessun rilievo penale, l’orrore del carcere, così, come se niente fosse; ha dovuto pietire i domiciliari, ottenuti infine solo perché il Prefetto lo aveva intanto sospeso dalle funzioni; ha dovuto dimettersi; è divenuto l’oggetto di una incredibile messa all’indice nazionale, aggredito con una violenza sproporzionata e insensata da tutta la miserabile compagnia di giro della politica nazionale. Le scuse postume possono aver dato una qualche soddisfazione morale a Simone Uggetti, ma non segnano alcuna resipiscenza della politica, che continua imperterrita ad avventarsi sull’avversario indagato o – nemmeno a parlarne – arrestato, senza alcun pudore, senza alcun sentimento di umana decenza. È quella politica che – davvero incredibilmente – mostra di non comprendere che riconoscendo già ai primi atti investigativi il peso e la forza di una sentenza di condanna, si scava ogni giorno la fossa, consegnandosi mani e piedi, con giuliva inconsapevolezza, al potere giudiziario. 

Non c’è nulla, in queste mie d’altronde perfino banali considerazioni, che possa avere seppure minimamente a che fare con una pretesa di impunità della politica, dalla quale dobbiamo pretendere il rispetto più rigoroso delle regole dell’etica pubblica. Ma proprio in considerazione delle conseguenze micidiali che una indagine giudiziaria comporta sull’ordinato svolgimento della vita democratica e delle sue istituzioni rappresentative, dovremmo poter pretendere dall’autorità giudiziaria una prudenza, una accuratezza investigativa, una rigorosa attenzione non solo nei mezzi investigativi adottati, ma perfino nelle parole usate negli atti giudiziari, che purtroppo vengono invece quasi sistematicamente a mancare, come questa storia dimostra in modo esemplare. È banale, infatti, osservare come questa piccola, mediocre, marginalissima indagine giudiziaria poteva senza dubbio alcuno essere egualmente svolta e portata a termine senza sconvolgere non solo la vita delle persone coinvolte ma, ripeto, soprattutto l’ordinato svolgimento della vita democratica di una comunità sociale. Si è scelta invece la strada della irruzione precipitosa, violenta, esemplare e salvifica della “Giustizia” per sgominare il “Male” nella vita pubblica agli occhi di tutti i cittadini. Fino alla incredibile decisione dell’arresto e del carcere, che in una vicenda bagatellare come questa, appare per ciò che essa è: un atto di gratuita, indicibile violenza nei confronti di una persona per bene, costretta, per malriposti e approssimativi sospetti su un appalto di 5000 euro, a conoscere la più profonda e devastante delle umiliazioni.

Il segno di quanto profonda possa essere stata la ferita inferta, senza ragione e contra legem (non può infliggersi una misura cautelare per fatti in ordine ai quali sia ragionevolmente prevedibile una pena inferiore a tre anni di reclusione) al Sindaco di Lodi, sta tutta nelle belle, dolorose parole con le quali egli descrive il carcere, dopo questa tremenda esperienza: “Luogo di forzata solidarietà, di disagi e piccole vergogne condivise, di coesistenza di destini”. Voglio augurarmi che la scelta di Simone Uggetti di raccontare questo suo dolore possa contribuire a diffondere quanto più possibile la consapevolezza di quanto inestimabile sia la difesa dei valori costituzionali della presunzione di non colpevolezza e di tutela e rispetto della dignità della persona.

Un arresto, un rumore sordo, una vita interrotta. E il coraggio del protagonista di raccontarla. Il 3 maggio 2016 è stato l’inizio di un’altra storia. Una menzogna. Questo libro racconta cosa significa perdere tutto e ricominciare da capo. Un sindaco, un’inchiesta, una città coinvolta. Una testimonianza per chi crede nella forza della giustizia e della memoria. Politica, magistratura, media, intrecciati in un sistema malato, possono schiacciare una vita intera. Questo libro non è una resa dei conti, ma un atto di verità. Ogni vita ha il suo giorno decisivo. Qui è narrato quel giorno e vengono portate alla luce le ferite che ha lasciato. La cronaca di una caduta involontaria e incolpevole, ma anche la tenacia lenta per la difficile risalita verso la verità nella ricerca della giustizia.

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